Il lutto genitoriale: un trauma che si può superare

Il lutto genitoriale: un trauma che si può superare

Ricorre oggi, 15 ottobre, la Giornata della Consapevolezza sul Lutto in Gravidanza e dopo la Nascita: un argomento poco trattato, ma che rappresenta un evento traumatico forte, per la madre e per la coppia che lo vive.

L’attesa genitorialità, il rapporto che si crea con il tempo, che parte fin dal momento in cui si scopre la gravidanza, interrotto da un aborto spontaneo o da una morte dopo il parto, è un’esperienza che, se non viene valutata in maniera corretta, può lasciare segni indelebili.

Abbiamo affrontato l’argomento con la dottoressa Gisella Agudo, psicologa, alla quale abbiamo rivolto qualche domanda, approfittando della sua disponibilità prima di uno degli incontri, proprio su questo argomento che si terranno a Lariano anche nelle prossime settimane.

Dottoressa, quante sono le persone che devono affrontare questa esperienza, che significa dover elaborare un lutto per la perdita di un figlio?
Si considera lutto neo-natale quello che va dalla nascita ai 28-30 giorni successivi, mentre la perinatalità è quel periodo compreso tra la 28ª settimana di gestazione fino alla prima settimana di vita del bimbo compresa. Secondo le statistiche, riferite all’anno scorso, i genitori coinvolti sono circa 2.000. Secondo il progetto pilota di sorveglianza ISS-Regioni, che ha coinvolto tre regioni italiane, si registrano, ogni 1.000 bambini nati, 4 decessi in Sicilia; 3,5 in Lombardia; 2,9 in Toscana“.

Cosa significa per una coppia perdere un bambino in una fase che si può considerare di felicità assoluta, sia come persona singola che di coppia?
Quando succede, sia a livello neo-natale che perinatale, si deve comunque parlare della perdita di un figlio, quindi decadono, davanti a questo trauma, ogni distinzione di tempo o definizione dal punto di vista scientifico. La morte del piccolo comporta la perdita della genitorialità e di quel rapporto di attaccamento con il proprio bambino. Tutta quella carica emozionale che si era creata fino a quel momento viene interrotta in maniera brusca e inaspettata. Questo trauma, cosi improvviso e doloroso, è destinato a trascinarsi a lungo“.

Questo trauma può essere cosi forte da poter indurre alcune coppie a rinunciare ad avere figli?
Sì, certo. Questo lutto, normalmente, ha un’elaborazione che va dai 6 mesi ai 2 anni. Ovviamente ogni persona e ogni coppia affronta l’evento in modo personale, e l’angoscia perdura in ciascuno individuo secondo dei tempi propri. Normalmente la rinuncia avviene in casi di lutti complicati, ovvero non elaborati, e può arrivare fino a comportare l’insorgenza di un disturbo psichico, come la depressione o il disturbo post traumatico da stress. Ogni situazione è unica e l’elaborazione di questo lutto ha tante variabili, costituite dalla storia personale di chi lo vive, ma anche da come viene comunicata ai genitori la perdita del figlio. Per esperienza personale, quando si palesa la possibilità di un’interruzione di gravidanza si può ‘preparare’ la coppia a questa eventualità, che se si dovesse concretizzare rimane comunque un trauma al quale non si può essere pronti“.

Quali sono gli strumenti a disposizione per poter affrontare questo evento?
Nei casi in cui si ha del tempo si può iniziare un percorso, come dicevo prima, che porti in qualche modo i genitori a intraprendere una strada per l’elaborazione del lutto. Soprattutto, però, qualcosa si può fare dopo la morte del bambino, con incontri mutuo-aiuto, di sostegno o supporto. Personalmente consiglio, nella maggior parte dei casi, incontri di mutuo-aiuto che favoriscano il confronto e la condivisione di un dolore che si pensa di essere soli ad affrontare. In realtà non è così: le situazioni sono tante e in questi incontri i genitori, con l’aiuto di uno psicologo, si aiutano tra loro“.

Secondo alcuni studi Europei sulla Sindrome da Morte in Culla (SIDS), in Italia, secondo i dati riportati dal centro di riferimento della Regione Lombardia, l’incidenza è di 1 su 1.000 nati.

Sorprendenti i risultati di uno studio condotto dalla European concerted action on Sids (ECAS), che ha evidenziato la correlazione tra la Sindrome della Morte in Culla e due fattori di rischio: la posizione del sonno e l’esposizione al fumo passivo. La posizione oggi consigliata è quella supina, quindi distesi sulla schiena.
Seppur in maniera minore, incide anche la condivisione del letto nelle prime otto settimane di vita a causa di un possibile soffocamento o surriscaldamento.
Dallo studio emerge, inoltre, che il tabagismo e il consumo di alcool durante la gravidanza creano una elevata correlazione con il rischio.

Un argomento che ci rendiamo conto essere doloroso da affrontare. Condividiamo, quindi, il consiglio della dottoressa Gisella Agudo: non rimanere nell’ombra e nel silenzio, perché solo l’elaborazione del lutto può aiutare a superare un evento così doloroso, che lascerà inevitabilmente una traccia indelebile.

Last Updated on 28 Marzo 2021 by

Redazione

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